REPORT-GATE: QUANDO EQUILIBRIO ED AUTOCRITICA NON GUASTEREBBERO
I tanto rimpianti e citati antichi romani,
che di certo – visti i successi ed i risultati raggiunti – la sapevano ben più
lunga di noi cittadini del ventunesimo secolo, solevano utilizzare la locuzione
“in media stat virtus”, ossia che la virtù (ma spesso anche la verità di
una storia) sta nel mezzo, invitando pertanto le persone a ricercare
l'equilibrio tra due estremi, al di fuori di ogni schieramento precostituito e
qualsivoglia esagerazione.
Ecco,
tale detto mi sembra perfetto per mettere a fuoco l’ormai noto Report-gate, ossia
l’ondata mediatica sollevatasi in conseguenza della messa in onda, sull’omonima
trasmissione di RaiTre, di una serie di servizi/inchieste giornalistiche sul
mondo del vino italiano.
Reportage
che al di là del sensazionalismo tipico del programma non mi pare abbiano rivelato nulla che gli appassionati e gli addetti ai lavori non conoscessero
già, estendendo naturalmente la platea a tante persone che pur consumandolo spesso
di vino capiscono o comprendono poco.
I cosiddetti
bevitori medi, quelli che comprano lo sfuso dalle cantine sociali o dall’enoteca
sotto casa, quelli che quando si ritrovano davanti lo scaffale dei vini al
supermercato tendono a prendere la bottiglia più economica (spesso meno costosa
di una birra di media fattura), meglio ancora se “figlia” di una denominazione
conosciuta, quelli per i quali il vino è fondamentalmente di tre tipi: bianco, rosso e... Prosecco.
E
allora, dove starebbe il problema?
Quali
contenuti o rivelazioni sarebbero importanti al punto da giustificare il
clamore che – da una parte e dall’altra – questa vicenda ha assunto nelle
ultime settimane?
A mio personale
e modestissimo parere assolutamente nulla, però, ritornando
al titolo, ho come l’impressione che in questa faccenda – al di là di una certa
ideologia o pregiudizio di fondo che porta spesso a demonizzare chi ha avuto la
bravura (ma anche la fortuna) di raggiungere il successo, cercando il marcio in
ogni cosa e vedendo qualsiasi processo industriale e tecnologico quasi alla
stregua del demonio – abbiano sbagliato o quanto meno abbiano commesso degli
errori un po’ tutte le parti in causa, che nella fattispecie sono almeno tre.
Infatti,
sbaglia Report:
- a sparare
nel mucchio, dato che dovrebbe essere ben consapevole del fatto che trattandosi
di un programma generalista in un contesto nazional-popolare, dare notizie in maniera così tranchant e senza praticamente contraddittorio rischia di fare una bruttissima pubblicità – in Italia ed all’estero –
ad un po’ tutto il mondo del vino italiano, finendo con il penalizzare non i
reali colpevoli della situazione ma tanti piccoli produttori che invece lavorano con coscienza,
passione ed abnegazione. D’accordo che il primo talento del buon giornalista è
quello di far notizia, di rendere sensazionale anche l’ordinario, di
spacciare (e mi scuso per il termine) per oro anche quello che a malapena
sarebbe ferro, oltre che il diritto di cronaca e di informazione è sacrosanto
ed inviolabile, ma quando quello che si dice può portare a far perdere il lavoro
a tante persone oltre che mettere in difficoltà un intero settore, tra l’altro parte
non proprio residuale del nostro PIL, un po’ di equilibrio e sensibilità
sarebbe quanto meno richiesta, oltre che necessaria
- a
non documentarsi con dovizia prima di iniziare il reportage, anzi, al
contrario, dando sempre l’impressione di essere quelli “che non sanno nulla
e stanno scoprendo ora che il vino si fa con l’uva”, oltre che mandare in
giro inviati che saranno pure bravi giornalisti ma che – evidentemente – di vino
ci capiscono quanto io capisca di religioni orientali o di cricket. Solo per
fare un piccolo esempio, sentir chiamare – ripetutamente – il Riesling RAISLING
è davvero deprimente, e finisce ai miei occhi ma probabilmente a quelli di ogni
qualsivoglia appassionato, per svilire e cancellare anche il buono che c’è nel
servizio.
Al
tempo stesso, sbagliano però le aziende e gli addetti ai lavori a prendersela
con dei giornalisti che – seppur con gli errori di forma e di sostanza sopra elencati – non fanno
altro che il loro lavoro, oltre che:
- a pensare di fare le verginelle quando certi meccanismi – in alcuni casi leciti anche se piuttosto border-line, oltre che eticamente discutibili – sono noti da decenni ed hanno prodotti scandali arrivati (citando la nostra Presidente del Consiglio) in ogni parte del globo terracqueo. Hanno dimenticato il vino al Metanolo, il Primitivo nell’Amarone, il Brunello di Montalcino scuro come un Merlot oppure i vini imbottigliati a centinaia di chilometri di distanza da dove si spera siano stati raccolti, per di più da "aziende" che più che un nome hanno un codice fiscale? Davvero pensano che chi li ascolta abbia l'anello al naso, gli occhi foderati con il prosciutto o più probabilmente una memoria che si resetta ogni sette secondi?
- a non
ammettere mai i propri errori o comunque quelli di un sistema che da un lato
parla di etica, di sostenibilità, di terroir ma che nei fatti insegue e persegue
(quasi) esclusivamente il profitto, oltre che non comprendere che un atteggiamento
di chiusura e/o superiorità nel lungo periodo non genera benefici, oltre che
non inverte mai il ciclo che dal declino porta al miglioramento
- non
si può ignorare che nel momento in cui a scaffale trovi bottiglie (che
volutamente evito di chiamare vini) con tanto di etichetta e collarino di
prestigio a prezzi a dir poco vergognosi, è già tanto che dentro ci sia il frutto
della fermentazione dell’uva, figurarsi quanto dovrebbe esserci leggendo il
disciplinare della tal dei tali denominazione
- non
si può far finta di non vedere, o non sapere, la commistione di interessi esistente
tra guide, critica enogastronomica (naturalmente una parte di essa, non tutta),
commissioni di assaggio ed associazioni varie di sommelier, che portano a
premiare/pubblicizzare/far assaggiare sempre gli stessi vini delle solite aziende, facendo
pensare, al consumatore meno evoluto oppure al neofita che si avvicina a questo
meraviglioso ma “difettato” mondo che, al di là dei numeri, il vino italiano sia
solo ed esclusivamente costituito da quelle cinquanta (o cento) realtà più
grandi ed importanti e non piuttosto da decine di migliaia di piccoli
produttori che veramente vivono di quello che producono e che riescono a
vendere anno dopo anno.
- non
si può non sapere che l’enomondo – italico ma non solo – è solo marginalmente
quello che tanto ci appassiona e che ci fa battere il cuore: non è i Crus di
Borgogna o delle Langhe, non è la viticoltura eroica, non è il vino affinato in
anfora o fatto con i lieviti indigeni. Quello è il mondo che a noi piace,
quello che vorremmo raccontare quasi fosse la famiglia del “Mulino Bianco”, ma la
realtà, o quanto meno lo standard, soprattutto quando si parla di realtà da decine
milioni di litri l’anno, è come sempre assai meno ricca di gloria e decisamente
più pregna di altro (che evito di nominare)
- non possono
non sapere che in ragione dei prezzi medi che alcuni vini (o più in generale
alcune denominazioni) stanno raggiungendo, di etico, giusto e sostenibile c’è
sempre meno, e che anzi la speculazione ed il mero guadagno – quasi mai da
parte di coloro i quali il vino lo fanno ma piuttosto di quelli che lo
distribuiscono o lo vendono agli utenti finali – la sta sempre più facendo
da padrone, e che se questa spirale non si arresta prima o poi noi appassionati
medi, noi che acquistiamo le bottiglie che beviamo conservandole spesso come
reliquie ma che non abbiamo a disposizione un portafoglio a tanti zeri, ci
troveremo nella condizione di poter acquistare solo il vino sfuso o peggio
ancora quello localizzato negli scaffali più bassi dei supermercati, i “peggiori
bar di Caracas”.
Non so
voi, ma io, personalmente, sono certo che ben prima di arrivare a questo punto
avrò già smesso di consumare vino.
Anche
se spero vivamente di non trovarmi mai di fronte a tal dilemma.
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