I MIEI RIFERIMENTI VINOSI (3): INTERVISTA AD ALESSANDRO MORICHETTI

 


Dopo un periodo di colpevole assenza, torna la rubrica dedicata alla scoperta delle personalità del vino a cui maggiormente guardo con ammirazione e rispetto, al tempo stesso una sorta di viaggio intimo e personale di conoscenza, formazione e (si spera) miglioramento.

E stavolta lo faccio intervistando Alessandro Morichetti.

Classe ’79, marchigiano di Civitanova Marche, boy-scout in pensione, una laurea con lode in scienze della comunicazione, un master (sempre cum laude) sul Non-profit e tante passioni mai sopite. Ad un certo punto della sua vita la folgorazione sulla via del vino, prima come sommelier poi come blogger/giornalista. Nel 2009 fonda Intravino, contenitore che al pari di pochissimi altri – forse nessuno – negli ultimi dieci anni ha contribuito a cambiare la comunicazione sul vino in Italia. Oggi vive nelle Langhe, dividendosi tra le attività di enotecario, ghost-writer e blogger, senza aver mai perso l’autenticità, la schiettezza e l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto.

 

IL TUO SOGNO DA BAMBINO

Ciao Alessandro, ed un grande grazie per aver accettato l’invito. Iniziamo con una domanda personale ma al tempo stesso quasi di rito, almeno per me. Chi avresti voluto essere (o diventare) da bambino?

Sono cresciuto negli anni in cui esplodeva l’NBA con Larry Bird e Magic Johnson. Poi giocavo a tennis e il mio idolo era Boris Becker. Ricordo a 10 anni Michael Chang mangiare la banana e servire da sotto contro Ivan Lendl nel 1989 al Roland Garros di Parigi, in una delle partite più memorabili della storia. Nello sport però quello che ho più amato è stato Marco Pantani. Ho conosciuto Ivan Santaromita, ex ciclista professionista campione italiano su strada nel 2013, che oltre ad essere simpatico dopo la carriera ha iniziato a godersi i piaceri della tavola. Ha preso 10 kg rispetto agli anni da pro e a tavola beve come una spugna, ho cercato di stenderlo prima della pedalata ma ovviamente non c’è stata storia. Scherzi a parte, avrei voluto fare il giornalista sportivo, ma non c’ho mai creduto davvero. Adesso ad esempio vorrei seguire il padel perché è uno sport in crescita inarrestabile. Un domani, chissà.


INIZIAZIONE ENOICA

Esiste un momento o un episodio a cui associ la nascita della tua passione per il vino?

Mai avuta una passione vera e propria, mai stato argomento di interesse in famiglia, mai visto fare vino da piccolo se non da parenti alla lontana. Solo delle gran ciucche alle superiori con lo sfuso in trattoria e il ritorno pericolante a casa in motorino coi compagni di scuola, una sorta di “all you can drink” ante-litteram. Perché, con buona pace di sommi degustatori, esperti e professionisti, se nel vino non ci fosse l’alcol del terroir ce ne sbatteremo allegramente. La scintilla però scoccò pochi anni dopo quando vidi Paolo Lauciani su TG5 Gusto mentre assaggiava e descriveva un Cervaro della Sala. Rimasi ammaliato e scattò una forte curiosità. Quindi sì, indirettamente devo qualcosa anche a Franco Ricci, padre della Fondazione Italiana Sommelier ex AIS Roma e gran manovratore della comunicazione enoica romana e non solo. Uno molto smaliziato e capace, che ha fatto grandi cose per la comunicazione del vino in Italia e con cui non andrei a cena.

 

MAESTRI DEL VINO

C’è qualcuno che in questi anni hai preso a riferimento, che ti ha ispirato o consigliato, e che tuttora consideri alla stregua di un maestro?

Maestri in senso proprio no. Ho letto tanto per trovare la mia strada e formare il mio gusto. Ho fatto i corsi Ais (adorati!) per poi capire che se davvero parli di un vino seguendo la terminologia della scheda non hai capito granché. Ho amato Porthos apprezzandone gli approfondimenti e le riflessioni ma è col mio amico Francesco Annibali, giornalista e docente di tecnica della degustazione nonché vicino di casa, che ho imparato a tenere il bicchiere in mano avendo la possibilità di fare domande inizialmente molto stupide che poi, pian piano, si sono andate raffinando. Francesco è una delle persone con cui ancora oggi mi diverto di più a bere, perché è bello confrontarsi da prospettive diverse per esperienza ma con un linguaggio comune. Non sono tante le persone con cui mi diverto a bere per imparare qualcosa: molti non hanno un gusto proprio, alcuni dicono cose prevedibili e libresche, altri non hanno curiosità intellettuale.

 

TERRITORIO

Sei nato nelle Marche e per lavoro e per passione ti sei trasferito nelle Langhe. Qual è il tuo rapporto con la terra e con il territorio, sia con quello in cui sei cresciuto che con quello dove attualmente vivi?

Bellissima domanda: in me ora ci sono le Marche con quella bellezza e l’accento ma anche tante Langhe, perché pur senza accento ci vivo da quasi 11 anni. Il parallelismo regionale ci porterebbe via delle ore: clima, socialità, autocoscienza locale, influenze esterne, tanti gli aspetti che mi fanno pensare spesso: “Ma se il Verdicchio fosse nelle Langhe?”, “Ma se Angelo Gaja fosse nato a Cupramontana?”, “Ma se le olive all’ascolana e il ciauscolo stessero al nord mentre la carne cruda, il vitello tonnato e l’insalata russa al sud?”. Prendi il tartufo per esempio: quello bianco pregiato ce lo abbiamo anche nelle Marche ma quello divenuto famoso nel mondo - caso unico di marketing enogastronomico e territoriale, tanto più ora che la cavatura è diventata patrimonio dell’umanità UNESCO - sta ad Alba: il brand sta ad Alba, il tartufo pregiato anche ad Acqualagna dove però un piatto di tagliatelle non arriva a costare 50 euro e dove non è pensabile un flusso turistico come quello che invade le Langhe almeno 2 mesi l’anno, con annessi e connessi in termini di indotto, densità umana e quant’altro. Venti anni fa erano a malapena 4 week-end a fare il pienone, ora è il delirio da fine settembre a fine novembre, do you understand? Discorso lunghissimo, le zone sono davvero diverse, hanno retaggi storici distanti e si sente di brutto. Per certe cose meglio le Langhe, per altre le Marche. Il Piemonte per certi versi è la Francia d’Italia, con quel tocco di sciovinismo che fa la differenza. Io per ora ho costruito il mio lavoro nelle Langhe e non conto di trasferirmi a breve.

 


INTRAVINO

Punto focale della tua carriera professionale è senza dubbio Intravino. Come nacque l’idea di questo blog che, permettimi, negli ultimi dieci anni ha contribuito come pochi altri a cambiare la comunicazione sul vino in Italia? Quali sono stati a tuo giudizio i motivi del suo successo? Ed oggi, a distanza di tempo dalla sua fondazione, ritieni sia posizionato esattamente dove avresti pensato e voluto che fosse?

Intravino è stato un momento di rottura necessario, un approccio differente, a volte fuori dalle righe ma onesto, informato e scanzonato. Molto trasversale per tipologia di contenuti, da post perculatòri di 5 righe a liste infinite di vini assaggiati ad appunti di viaggio a grandi questioni filosofiche o legislative. Un po’ di tutto insomma, con una apparente assenza di linea editoriale che in realtà permette a ciascun lettore di trovare i propri autori di fiducia e stili di riferimento. Insomma, il bilanciamento di post intelligenti e post light è la nostra cifra distintiva e ce ne vantiamo.

Purtroppo quest’anno è venuto a mancare il nostro storico direttore Antonio Tomacelli, con cui ho condiviso questo percorso dall’inizio, con un confronto serrato e continuo perché anche un blog collettivo, per andare avanti, necessita di tempo, attenzioni, cura editoriale, motivazione, metodo e affinità altrimenti il giochino si rompe dopo pochi mesi (di esempi sul tema potrei fartene a bizzeffe). In assenza di Antonio, ci siamo rimboccati le maniche perché quest’avventura collettiva deve continuare e la cosa bella è che ci arrivano molto spesso richieste di persone che vorrebbero scrivere su Intravino. Perché lo leggono, gli piace lo stile e vogliono partecipare in qualche modo. La prima cosa che diciamo è che non si guadagna soldi scrivendo ma qui potremmo aprire una parentesi infinita sulla grande guerra dell’informazione. Te la riduco in poche pillole: non prendiamo soldi dalle aziende produttrici perché sarebbe un vincolo editoriale che non vogliamo. In una certa misura ti direi che più un sito è sponsorizzato da aziende produttrici di vino e meno mi interessa leggerlo. Regola tagliata con l’accetta ma funziona. Poi ci mancherebbe, essere liberi non è garanzia di alcuna qualità, però almeno aiuta ad evitarsi qualche fetenzia e poco non è. Ad avere molto più tempo, Intravino potrebbe sfornare iniziative come la Intravino CUP, serate a tema con un programma interessante (l’unico modo con cui ho monetizzato qualcosa grazie ad Intravino sono state Le Grandi Storie di Intravino, cicli di serate per un pubblico pagante), partecipazioni speciali ad eventi fighi, organizzazione di verticali uniche. Non è detto che non lo faremo.

 

REGOLE DELLA COMUNICAZIONE

Oggi – nel vino ma non solo - c’è totale confusione tra comunicazione, giornalismo e critica, ma anche tra informazione e pubblicità. Sembra che tutto sia divenuto un unico calderone, in cui ogni azione sia possibile ed in cui non esistano regole, ed il mondo social è un ulteriore acceleratore di questa deriva. Qual è il tuo punto di vista sul tema?

Questo è l’argomento che più mi surriscalda perché lo vivo anche personalmente da anni nel tentativo di non mischiare le sfere nel mio ruolo di venditore su Doyouwine/ ghost writer per Les Caves de Pyrene / blogger su Intravino. E infatti non ricordo più l’ultimo articolo in cui ho parlato di una azienda su Intravino. Non è facile darsi delle regole di comportamento serie e rispettarle e dispiace vedere che la commistione tra comunicazione, informazione, marchette e porcherie varie sia dilagante. Diciamo le cose chiaramente: la stampa di settore nella quasi totalità dei casi sta in piedi con i soldi delle aziende produttrici di vino. Tanta parte degli articoli prodotti ha il fine diretto o indiretto di compiacere qualcuno. I produttori sono poi tanto propensi a ricevere complimenti anche dall’ultimo degli scemi quanto particolarmente sensibili a ogni forma anche lontanamente accennata di critica. Se poi viene fatta per iscritto magari su un vino, apriti cielo. Quindi il dilagare di recensioni iper positive “nella splendida cornice” è ancora all’ordine del giorno: un ammasso di spazzatura davvero difficile da digerire. Se poi alcuni comunicatori pagati dalle aziende sono anche “giornalisti” che scrivono articoli su testate di varia natura e in cui magari menzionano le aziende che li foraggiano capisci che si va poco lontano. Di esempi potrei fartene a decine ma non te ne faccio nessuno perché le bugie sono difficili da smascherare e perché le marchette presuppongono che io ti fornisca la ricevuta del bonifico che corrisponde a questa o quella menzione del vino. Quindi possiamo pure far finta che l’argomento sia secondario ma per il nostro piccolo mondo del vino è decisamente centrale per quanto mi riguarda. E alla fine le fonti di cui mi posso fidare sono davvero poche. L’indipendenza è possibile ma costa davvero tanto, non solo economicamente. Il giornalismo enogastronomico è morto, e se non è morto non sta bene di sicuro. Ammesso e non concesso che sia mai esistito in senso proprio.

 

DEGUSTAZIONE E PREGIUDIZI

E’ possibile degustare un vino liberi da pregiudizi di sorta, siano essi legati al blasone, al costo oppure a ragioni di cuore? Oppure l’unica strada possibile per “ripristinare la verità delle cose”, anche se pur sempre soggettiva, è la degustazione cieca?

Quella della degustazione è una pratica molto affascinante. Anche delicata perché tanti sono i fattori in gioco: allenamento, preconcetti, forma fisica e lucidità del momento, gusto personale, capacità analitica e virtù critiche, un gesto così apparentemente semplice e tanti cassetti da aprire per farlo al meglio. E tante le influenze esterne: l’etichetta e il nome certo, ma anche la compagnia e la situazione e le “deviazioni” che ognuno di noi ha. Degustare alla cieca o semi-cieca ha tanti meriti ma in alcuni casi l’etichetta va tenuta presente per contestualizzare un vino, che è il liquido dentro alla bottiglia più tutti gli aspetti socio-commercial-culturali attorno alla bottiglia. Imparare a resettare i pregiudizi nell’assaggio è cosa buona e giusta, non facile ma assai utile.



BIODINAMICO E NATURALE

All’interno di Doyouwine.com, l’enoteca che gestisci, uno spazio non trascurabile è dedicato all’universo biodinamico e naturale. Qual é la tua opinione su questo modo di intendere il vino ma anche e soprattutto sul sistema, organizzativo e comunicativo, che ruota attorno a questa realtà? Non credi che evitando di darsi delle regole si corra il rischio di dar ragione a chi sostiene sia una moda, e come tutte le mode destinate a passare?

Guarda, riformulo la questione: io vendo vini che trovo buoni, spesso sono appartenenti a quelle sfere produttive ma li vendo in primis perché mi aggradano e perché da cliente sarei felice che qualcuno me li proponesse dopo averli testati e apprezzati. Poche settimane fa ho partecipato ad una serata portando io i vini per i 35 partecipanti, i miei “vini del cuore” o comunque bottiglie che mi rappresentano: San Vincent di Bergianti, Stiolorosso di Casalpriore, Il Blanc de Blancs di Laherte, Greco di Tufo Miniere Dell’Angelo, Castelli di Jesi Ris. Selva di Sotto La Staffa, Chianti Classico Riserva 2018 Monte Bernardi, Barbaresco Riserva 2016 Montefico Produttori del Barbaresco, Ripasso 2017 Monte dei Ragni, Barolo Chinato Cappellano. Ecco, il mio gusto del vino in una fotografia è questa roba qua. Naturale e biodinamico sono approcci produttivi forieri di molte riflessioni ma talvolta portano a un cortocircuito di slogan e ragionamenti fini a sé stessi. Negli ultimi 10-15 anni le istanze produttive del “come” hanno preso spazio sulla scena rispetto al solo “cosa”, con pro e contro della questione. Non ultimi dei vini che io semplicemente non comprerei perché non mi piacciono e non tanto perché vengono proposti soprattutto mettendo in primo piano le scelte tecniche e/o filosofiche. Siamo poi d’accordo che il “buono” non sia uguale per tutti. Le mode passano ma di come si fanno certi vini parliamo da un bel po’ di tempo e anche le grandi aziende hanno fatto proprio un certo regime comunicativo, cui non sempre corrisponde una pari convinzione. Le regole troppo stringenti farebbero saltare il banco perché non è tutto oro quello che luccica e ovviamente, al contempo, regole permissive garantiscono poco che venga realmente fatto quel che il bevitore pensa di intendere.

 

SE FOSSI UN VINO

Facciamo un gioco. Qual è il vino che per caratteristiche associ maggiormente a te? Ed a quale invece ti piacerebbe assomigliare? E se esiste, c’è un vino – meglio se famoso o blasonato – con cui non vorresti mai essere identificato?

L’associazione di vini e persone è sempre divertente. Ti dico quelli che mi rappresentano per motivi diversi. Anzitutto il Verdicchio: un grande bianco italiano, a volte (poche) grandissimo, che ha il pregio e il difetto di stare nelle Marche. Dove molti gli preferiscono Passerina e Pecorino: non ce la possiamo proprio fare. E poi diciamolo che fuori dalle Marche non lo conosce praticamente nessuno. E molti di quelli che lo conoscono ancora hanno in mente l’anfora del tempo che fu. Abbastanza male, insomma. Poi il Lambrusco (o meglio i Lambruschi, preferibilmente Sorbara e dintorni), un frizzante che adoro come la gente d’Emilia, a cui certo non si insegna come stare al mondo per godere. Bevo tantissimo Chianti Classico perché sfumature e senso delle proporzioni senza ruvidezze sono deliziosi. In qualche modo però posso somigliare anche a un Barbaresco che viene fuori alla distanza, non troppo leggibile subito e un po’ contratto ma interessante una volta aperto.

 

SE GLI ALTRI FOSSERO UN VINO

Estendiamo il gioco agli altri. Scegli alcune persone (non necessariamente amiche) del mondo del vino che hai conosciuto in questi anni nel vino e dimmi che vino sarebbero…

Ok, vediamo un po’. Con qualcuno però ci berrei insieme 😉

Sandro Sangiorgi: Trebbiano d’Abruzzo di Emidio Pepe, un vino porthosiano.

Franco Ricci: un vino di Bruno Vespa, what else?

Luca Gardini: Oreno di Tenuta Sette Ponti, gli piace tanto tanto tanto e glielo lascio tutto.

Daniele Cernilli: un Barolo dei Marchesi di Barolo, secondo me lo rappresenta bene.

Francesco Annibali: uno Chablis di Dauvissat, perché a Chablis la prima volta andammo insieme, fu una bellissima esperienza e poi perché bere altro?

Jacopo Cossater: Le Trame 2019 di Giovanna Morganti, e la berrei con lui.

Carlo Macchi: Le Pergole Torte di Montevertine, perché Carlo da Poggibonsi è da sempre amico intimo della famiglia Manetti e perché ricordo ancora due bocce di Pergole 2007 bevute insieme ad altri ad Ein Prosit qualche anno fa.

Emanuele Giannone: Vitovska di Zidarich, perché Emanuele ama il Carso e io la Vitovska di Zidarich.

Mauro Mattei: Cesanese di Olevano Romano Silene di Damiano Ciolli, perché Mauro e Damiano sono culo e camicia fraterni olevanesi e perché Mauro è stato uno dei più brillanti sommelier che io ricordi. Altroché tanti quaquaraqua.

Alessandro Masnaghetti: Barbaresco Rabajà di Bruno Rocca, un vino storico da un cru mitico di Barbaresco, e il Masna sulla capacità di mappare ha costruito una eredità unica.

Paolo De Cristofaro: il Fiano di Pietracupa. Paolo è metodico come pochi e bravissimo, lo leggo sempre con grande piacere e soprattutto sulle cose di Campania è il numero uno. Quindi inizieremmo con un Fiano, poi un bianco di Borgogna, poi un Verdicchio, poi un rosso di Langa, poi un rosso di Borgogna, un po’ all’infinito. Grande Paolo.

Antonio Boco: Pian del Ciampolo di Montevertine, per vincere la "sindrome Pian del Ciampolo” insieme. Infatti l’ultima volta abbiamo bevuto Pian del Ciampolo.

Con Giampaolo Gravina qualche bel Borgogna che sceglie lui alla cieca.

Michele Malavasi: un appassionato vero e un grande amico emiliano, talent scout per amici e parenti, con lui berrei San Vincent di Gianluca Bergianti, di cui mi parlò prima di chiunque altro e a buon diritto perché è uno dei frizzanti più buoni del mondo. 

Nelson Pari, ambassador di 67 Pall Mall a Londra e altre storie: con lui berrei un vecchio Ronco di Castelluccio, possibilmente in forma sfavillante.

Con quel Barbapapà di Antonio Tomacelli mi sarei bevuto un Primitivo di Nicola Chiaromonte, pugliese vero. Con Antonio ci siamo sentiti e scritti tantissimo ma visti pochissimo, forse è stato questo il segreto di tanti anni virtualmente accanto. Viva Antonio!

La lista potrebbe continuare all’infinito ma va bene così.

 

SCOMMESSA SUL FUTURO

Qual è il territorio del vino (non necessariamente italiano) che non ha ancora raggiunto la notorietà che merita e sul quale – se potessi o dovessi farlo – scommetteresti nei prossimi anni?

Ce ne possono essere tanti perché, a dispetto di quello che si pensa, il vino viene buono in tanti posti. Se oggi dici Barbaresco tutti si tolgono il cappello ma quanti sanno che 60 anni fa Barbaresco era il comune più povero di tutta la provincia di Cuneo? Il più povero, la vera malora, quella campagna da cui fuggire armi e bagagli. Poi è successo qualcosa ma stai pur certo che il “prodotto” conta meno delle teste che quel prodotto lo hanno fatto viaggiare, bere, apprezzare nel mondo. A Barbaresco oggi ci sono forse i contadini più ricchi d’Italia e se chi beve quei vini non parte da questo, di quei vini capirà il gusto ma non il senso profondo.

 

PROGRAMMI PER IL FUTURO

Come ti vedi tra qualche anno? Pensi di proseguire nel percorso che stai portando avanti oggi o vorresti misurarti in qualche nuova avventura?

Sono un animale stanziale e poco propenso ai colpi di testa. Però mi è andata di culo a finire nelle Langhe, un posto che ci invidia tutto il mondo ed in cui gli appassionati di cibo e vino come me hanno di che divertirsi. Poi boh, chi vivrà vedrà.

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