Colline Ciociare, l’Opera 3.0 di Salvatore Tassa



“… un animale per essere libero deve nascere libero…

un uomo, per esserlo, deve diventarlo costruendo la propria storia”

Salvatore Tassa

 

Come accade per il nostro amato mondo del vino, anche in ambito gastronomico prediligiamo la cucina che cerca di mantenere uno stretto legame con la terra ed il territorio cui appartiene, riservandogli pertanto le nostre maggiori attenzioni.

Per questo motivo, da tempo apprezziamo Salvatore Tassa e la sua filosofia di cucina, e finalmente, sabato scorso siamo riusciti a cenare presso il suo ristorante “Le Colline Ciociare” ad Acuto, distante qualche chilometro dalla nota stazione termale di Fiuggi, che anche quest’anno – tra i vari riconoscimenti – è stato insignito della Stella Michelin.

 

Salvatore, che ama definirsi “cuciniere” anziché chef (a differenza di tanti improvvisati che ancora prima di imparare a cucinare si fregiano di questo “titolo”, ndr…) propone da anni una cucina particolare e per certi versi provocatoria, che come lui stesso scrive nel suo sito “cammina nei sentieri tracciati dalla natura, attraversa in essa le sue essenzialità, i suoi colori, i suoi suoni”. I suoi piatti non sono quindi che “l’espressione di ciò che mi rimane addosso nel camminare in questi sentieri…”

Al tempo stesso, nei suoi piatti è sempre fortissimo il legame con il territorio e con i luoghi da cui proviene, quella Acuto in cui ha deciso di aprire il suo ristorante e che ha contribuito, con il suo grande lavoro, a mettere al centro dell’attenzione gastronomica nazionale.

 Infine, altro aspetto importante è il concetto di casa, che lo chef mette in evidenza fin dal campanello (da suonare per poter entrare) all’ingresso del ristorante, così come nei temi che compongono l’arredamento interno.

Tutto questo legame con terra, territorio e casa, potrebbe far pensare (chiaramente sbagliando di grosso) ad una cucina semplice, quasi casalinga, mentre nella realtà la sua è una cucina moderna, visionaria e fatta di grandissima tecnica, che lo chef mette “sapientemente a disposizione” della materia prima, la protagonista di ogni sua creazione.

 Venendo alla nostra esperienza diretta, abbiamo scelto il menù OPERA 3.0, nella realtà l’unico percorso “completo” che il ristorante propone in questo periodo così particolare della vita di tutti noi.

Un percorso che segna “l’evoluzione dello chef”, e che più che un viaggio gastronomico abbiamo compreso ed interpretato come un vero e proprio messaggio: l’appartenenza dell’uomo – o per meglio dire il suo ritorno – agli elementi della natura.

 Prima di tutto la Terra, la madre di ogni cosa, l’elemento senza il la quale non ci sarebbero materie prime, e quindi senza la quale non sarebbe potuto esistere questo percorso ma più in generale ogni forma di cucina.

Terra che lo Chef mette al centro di ogni portata, declinandola in ogni sua forma, e che idealmente associa agli altri elementi (Acqua, Aria e Fuoco) attraverso le varie cotture, che come strumenti o fedeli vassalli di volta in volta “accompagnano ed esaltano” l’elemento principale.

 Un percorso senza fronzoli, per molti aspetti essenziale, che non cerca in nessun modo di sedurre con inutili orpelli barocchi (che uno chef del suo livello potrebbe e saprebbe aggiungere senza fatica alcuna) ma che come ogni opera d’arte degna di questo nome restituisce – riuscendoci appieno – l’essenza su cui esso si fonda.

Spiegarlo a parole non è semplice, ma una volta che ci si trova con i piatti davanti tutto appare più chiaro ed evidente, quasi ovvio.

 Un percorso che comincia con una portata di benvenuto (spuma di funghi porcini su letto di crema di zucca e zenzero) che – paradossalmente – fornisce un’idea deviante di quello che sarà, ammaliandoci con una piacevolezza quasi “ruffiana”, destinata poi a sparire nel seguito degli assaggi.

Piatti che – in differenti forme ed in alcuni casi anche con importanti spigolature – hanno saputo rappresentare al meglio e mettere in evidenza il concetto alla base del percorso.

Noi, per gusto personale siamo stati folgorati da “Frutti del Mare che non c’è”, dei fantastici ravioli con ripiene di anguilla accompagnato da un brodo a base di mele, in cui il contrasto dato tra la sapidità del ripieno e la dolcezza del brodo era semplicemente sublime, ma abbiamo comunque apprezzato il menù nella sua completezza, come un film in cui ogni scena – anche quelle apparentemente più noiose e prive di significato – al termine di esso assumono un significato diverso, funzionali allo svolgimento dell’intera trama.

 Probabilmente, se avessimo avuto la possibilità di scegliere tra tutti i menù che in genere il ristorante offre, ci saremmo orientati verso quello che propone i “grandi classici” dello Chef.

Siamo convinti che ne saremmo usciti con una esperienza gustativa ancora più appagante, ma quasi certamente non avremmo avuto modo per comprendere – almeno un po’ - l’Uomo Salvatore Tassa, il suo concetto di cucina ma più probabilmente di vita.

 

Commenti

  1. Grazie! Mi hanno sempre detto che mangiare in un ristorante stellato o comunque molto famoso, sia un'esperienza sensoriale 😊

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  2. Un grande questo "Cuciniere"...quanta cultura!

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