CRONACA DI UNA (TRANQUILLA) CENA TRA AMICI E DI CINQUE VINI DEGNI DI ESSERE RACCONTATI


Una serata trascorsa in compagnia degli amici con cui non ti vedi da tempo come da tradizione finisce per essere motivo ed occasione per aprire e condividere qualche bella bottiglia prese della mia cantina personale.

Qualcuna entrata di recente, altre conservate con tutte le attenzioni del caso da svariati anni.

Alcune reclutate online, altre acquistate direttamente dalla mano del produttore.

Etichette che – tranne che per una lodevole eccezione – avevo bevuto diverse volte anche se in differenti annate, e che ero dunque curiosissimo di ritestare un'altra volta.

La cena incomincia con una delicata ed al tempo stesso buonissima tartare di bufala, a cui decido abbinare un bianco.

Qualcuno, sbagliando, pensa sia buono per preparare la bocca agli assaggi successivi, ma conoscendo il vino in questione sono certo non sarà una bevuta interlocutoria.

Anche perché nel calice ci ritroviamo un Fiano di Avellino non certo uno a caso, dato che parliamo di Guido Marsella, uno dei produttori di riferimento della denominazione.

Annata 2019, vigneti a Summonte, in una delle zone più alte, fredde ma al tempo stesso vocate della denominazione. Affinamento di 12 mesi in acciaio.

Dorato nel calice, al naso nonostante l'evidente gioventù esprime già delle belle note affumicate che ben si accompagnano a rimandi floreali e di erbe aromatiche. Lato fruttato solo in sottofondo. In bocca è ancora meglio, regalando un sorso pieno ma al tempo stesso energico, verticale ed elegante. Bottiglia che (purtroppo) finisce in un amen, lasciando in me quasi  una sensazione di tristezza per essere andato via con la rapidità con cui è arrivata. Vino che mostra ancora una volta il lato più elegante e "nordico" del Fiano di Avellino, nonostante una struttura di tutto rispetto. Per me uno dei migliori, se non addirittura il migliore, produttori della denominazione, in un'annata (la 2019) che si conferma eccellente per i bianchi irpini.

A questo punto si passa ai rossi, iniziando il “percorso” con una (per il sottoscritto) new-entry, lo Schioppettino di Prepotto 2020 di Sirch, scelto per accompagnare una spettacolare gricia.

Vigneti posti su terreni marnosi e situati a Prepotto, sottozona considerata una sorta di Grand Cru della denominazione, oltre che culla storica dello Schioppettino. Vendemmia tardiva, affinamento di almeno 12 mesi in barrique di rovere francese. Annata media, né particolarmente calda e siccitosa né eccessivamente piovosa.

Rubino appena granato, integro, mediamente intenso, molto limpido. Naso pulito, ancora molto giovanile, intenso e profumato, di media complessità, articolato su toni di frutta rossa matura ed evidenti note speziate (ginepro, pepe, chiodi di garofano), cui si affiancano rimandi boisé (cipria/incenso) ed eterei. Bocca coerente, più elegante che potente, con ancora le spezie a fare la voce grossa, calda ma senza eccessi, acidità ancora viva. Buona sapidità, nel complesso già abbastanza equilibrato. Tannino ben integrato nella struttura e di buona fattura. Persistenza ottima, finale in continuità (speziato) con in più un leggero rimando ammandorlato. Per evidenti ragioni anagrafiche il vino meno “interessante” della serata, un ragazzino con eccellente potenziale e tantissima vita davanti, oltre che espressivo del vitigno.

Con i secondi (filetto di bufala e scamorza artigianale alla piastra) decido di mettere in campo due calibri mica da ridere, entrambi figli di un’annata – la 2013 – a me molto cara, fresca e non particolarmente considerata dalla critica al momento dell’uscita sul mercato ma che nel corso degli anni mi ha regalato decisamente più gioie che delusioni.

E che anche stavolta non tradirà le attese.

Il primo della lista è l’Aglianico del Vulture Titolo, figlio unico di Elena Fucci, probabilmente la produttrice più nota e “titolata” della denominazione.

Aglianico in purezza. Vigneti di 70 anni situati nella zona più alta della Contrada Titolo a Barile, una delle più vocate dell'intera DOC, uve che fino agli anni '90 la famiglia di Elena Fucci vendeva a Paternoster e che generalmente confluivano nel Don Anselmo. Terreni vulcanici, minerali, scuri e pozzolanici. Vendemmia a fine ottobre, 12 mesi in barrique di rovere nuove al 100%

Granato ben tenuto, mediamente intenso, denso e limpido, al naso si mostra integro ed affascinante, fine e complesso, giocato dapprima su note di sandalo e spezie orientali e con una nota di frutto scuro che emerge in sottofondo, oltre a sfumature balsamiche che riportano all'eucalipto. Bocca coerente all'annata, senza eccessi né di struttura né alcolici. Minerale, sapido, con acidità ancora viva ma al tempo stesso ben bilanciata dalle componenti morbide. Tannino setoso. Persistenza ottima. Un filo di calore alcolico che emerge solo sul finale, accompagnando note di cacao amaro. Il lato roccioso dell'Aglianico del Vulture, con ancora vita davanti a sé.

A seguire, arriva il Brunello Vigna Soccorso di Enzo Tiezzi, per una serie di ragioni una delle mie etichette del cuore.

Vigneti posti a ridosso del centro storico di Montalcino, dietro la Chiesa del Soccorso. Etichetta storica, una delle prime certificate del Brunello (1891) anche se il produttore del tempo – il Prof. Riccardo Paccagnini – non aveva nessun legame di parentela rispetto all'attuale proprietario. Fermentazione alla vecchia maniera del Brunello, in tini troncoconici di legno, affinamento di 44 mesi in legno si varie dimensioni (da 10 a 50hl).

Granato con riflessi aranciati, bella intensità e consistenza, molto limpido. Naso come sempre splendido, classico e calibrato, giocate su note di arancia sanguinella, terre nobili, foglie di tè, tabacco appena sfumato e carne arrostita in sottofondo. Componente fruttata praticamente assente. Bocca coerente, strutturata ma senza esagerare, molto elegante in centro bocca, oltre che perfettamente equilibrata. Componente alcolica ben tenuta, tannino delicato ed integrato. Finale lungo, molto elegante e giocato su note di spezie orientali.

Sempre una sicurezza. Per me uno dei migliori Brunello nel rapporto qualità/prezzo, ancor di più considerando che parliamo di un'etichetta dai numeri limitati (circa 7500 bottiglie/anno).

Per concludere in bellezza la serata potevamo farci mancare un dolce al cioccolato, a cui accompagnare un’ultima chicca, ossia il Late Bottled Vintage Port – sempre 2013 - di Taylor’s Fladgate? Certamente no…

Porto affinato per 4-6 anni in botti di rovere, una sorta di “versione intermedia” tra le tipologia Ruby (entry-level della denominazione) e Vintage (la più prestigiosa e costosa, capace di evoluzioni che in molti casi superano il secolo di vita), creato per la prima volta dal produttore di cui sopra e che ancora oggi ne rappresenta una delle versioni di riferimento.

Rubino compatto, molto denso, al naso si mostra intenso ed impattante, caratterizzandosi per note di confettura a cui si affiancano rimandi balsamici e boisè (cedro, sandalo). Bocca classica, piena, sensuale, forse un filo più calda e meno articolata rispetto ad altre versioni assaggiate in passato  - ad esempio ricordo una 2011 da sballo – ma di sicuro affidamento e piacevolezza, oltre che ben equilibrata. Tannino rotondo, ottima persistenza, finale su note di cacao e frutta sotto spirito.

Che altro aggiungere... bella compagnia, tante risate, cibo buonissimo e cinque bottiglie ognuna con una storia alle spalle. Che spero di aver raccontato in modo degno al loro valore.

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