L’arte del semplificare (male)

Riflessione a cuore aperto, ma soprattutto polemica e dunque a briglia sciolta, sulla crisi del consumo nel settore vitivinicolo, in Italia ma non solo, specie tra le nuove generazioni.

Ebbene sì. Sarà che con l’età si diventa meno tolleranti e comprensivi, ma con il trascorrere del tempo faccio sempre più fatica a sopportare questa sorta di “doppio salto mortale indietro” riguardo la comunicazione del vino.

La formula è più o meno la seguente: dato che il mondo cambia (in peggio, mi permetto di aggiungere), siccome che i giovani ricercano sempre più immediatezza e semplicità, va ripensata la comunicazione del vino, per troppi anni eccessivamente snob, autoreferenziale ma soprattutto troppo difficile da comprendere. Altrimenti il vino finirà per non berlo, e soprattutto non comprarlo, più nessuno.

Dal mio umilissimo punto di vista il “ragionamento” (chiamiamolo così, anche se finisce con l’offendere l’intelletto stesso) è tanto di più errato ci possa essere, se non altro per una ragione di base molto semplice.

Ossia che al di là di un vocabolario legato al passato ed oggettivamente improbabile, la comunicazione in ambito enologico non può essere semplice – né tantomeno essere banalizzata nel famigerato “è buono o non è buono”, semplicemente perché il vino è qualcosa di tremendamente complesso, oltre che spesso insondabile e difficilmente prevedibile.

Non è certo un qualcosa che in tre/quattro lezioni – o peggio ancora con un tutorial su Youtube – si può arrivare a comprendere. Occorrono anni di studio, dedizione, passione, esperienze, viaggi, chiacchiere con produttori/distributori, soldi (quasi sempre) ben spesi e soprattutto curiosità.

E tutto questo, il più delle volte, per arrivare a comprendere che nonostante i nostri sforzi e le nostre convinzioni del momento, di lacune da colmare, di territori da scoprire, di esperienze che ancora ci mancano ce ne sono tante, probabilmente troppe per essere fatte tutte in un’intera vita.

Quindi, al di là delle chiacchiere da bar e dei mea-culpa di interesse e circostanza, spesso da parte degli stessi che sono stati in prima linea nel costruire attorno al vino quell’aurea di snobismo, aristocrazia e superiorità, la strada non può che essere una sola: se non sei curioso, se non hai pazienza, se non hai voglia di metterti in discussione, se per te l’alcol – che tra l’altro fa male e che andrebbe limitato e razionalizzato a prescindere - serve solo a far cadere i freni inibitori e dunque a rallegrare il sabato sera  lascia perdere il vino.

Bevi birra o super-alcolici dozzinali, o limitati a vini che costano meno di una buona acqua minerale, prodotti (forse) in una regione e imbottigliati in un’altra dopo veri e propri viaggi della speranza dentro autocisterne in condizioni igienico-sanitarie che nemmeno le peggiori cucine di “Hell’s Kitchen” hanno visto mai.

Anche perché spendere di più – se non hai la voglia ancor prima della capacità di comprendere ed apprezzare le differenze che il più delle volte determinano il valore di una bottiglia – è solo un inutile esercizio, oltre che uno spreco di denaro.

Pertanto, nel vino ma non solo, non dobbiamo provare a banalizzare quello che invece è complesso per paura di restare in pochi, semmai dobbiamo convincere i tanti (soprattutto i più giovani) a cambiare almeno in parte il loro paradigma.

Ossia che quello che può essere diretto ed immediato è giusto che rimanga tale – senza andare a complicarlo inutilmente – ma che quello che semplice non è, quello che presuppone studio, abnegazione e sacrificio per essere compreso, è giusto e sacrosanto che rimanga tale.

Oltretutto, se il giudizio, la critica, l'analisi si riducesse al semplice "bevi ciò che ritieni buono senza farti troppe domande", per coerenza saprebbero spiegarmi i vari critici, influencer e soprattutto produttori (blasonati in primis) sulla base di quale oscura ragione il destinatario finale del loro articolato messaggio dovrebbe spendere centinaia di euro per una bottiglia, quando di vini semplicemente buoni e piacevolissimi - in Italia ma non solo - se ne trovano tantissimi anche a molto ma molto meno?

Semmai, se c’è un problema legato al vino e che sta sempre più allontanando le persone da esso è il costo delle bottiglie, che negli ultimi dieci anni è cresciuto in maniera incontrollata, rendendo inaccessibili all’appassionato medio (quindi non al riccone di sorta o al figlio di papà) tantissime etichette che fino a qualche tempo fa, al netto di qualche piccolo sacrificio praticamente chiunque poteva pensare di comprare.

E dunque, ancor prima di ripensare alla comunicazione, andrebbe forse ripensata – in chiave maggiormente etica e sostenibile – la catena di distribuzione, quella che in nome del guadagno più sfrenato porta a vendere a scaffale delle etichette con un ricarico di più del 300% rispetto al prezzo di listino a cui le stesse vengono acquistate in cantina, quella che ha reso tante bottiglie, se non intere denominazioni, un trofeo da esibire sul social del momento per acchiappare qualche like in più.

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