Cru ed Unità Geografiche, quando cambiare le norme rischia di non bastare


Ogni qualvolta si parla del ritardo del comparto vinicolo italiano rispetto a quello francese, che al di là di campanilismi o facili banalizzazioni è una “dura verità” certificata da un prezzo medio dei nostri vini pari a circa la metà di quello che sanno strappare i cugini d’Oltralpe, uno degli aspetti maggiormente citati è quello dell’IDENTITA’, sia in termini di riconoscibilità delle differenze esistenti tra prodotti più o meno diversi tra loro che, anche e soprattutto, in termini di evidenza della piramide della qualità.

Argomenti in cui i francesi sono autentici maestri, mentre noi, nella stragrande maggioranza dei casi, potremmo considerarci al massimo dei copisti arruffoni, capaci di inventare DOC di cui non si sente il bisogno o di passare giornate a dibattere sul perché – per fare un esempio banale – il consumatore medio non sia disposto a spendere 15/20 euro per un buon Chianti Classico quando si consente ad intrugli di dubbia provenienza di fregiarsi dello stile “titolo” e di essere proposti a tre euro, se non addirittura meno, sullo scaffale di molti supermercati.

A tal proposito, i termini a cui maggiormente si guarda, quelli che tutti invocano come se il solo nominarli costituisse una sorta di panacea di tutti i mali o – per meglio dire – di soluzione ad alcune delle problematiche che limitano il nostro vino (che per onestà e completezza di informazioni possiede anche numerosi pregi e punti di forza), sono quelli di UNITA’ GEOGRAFICA AGGIUNTIVA e di CRU.


Concetti che vengono spesso sovrapposti e confusi uno con l’altro – in alcuni casi anche da persone addentro a questo mondo ma – ma che nella realtà, fanno riferimento ad ambiti profondamente differenti, seppur siano utilizzabili simbioticamente.

Infatti, mentre l’UNITA’ GEOGRAFICA AGGIUNTIVA (spesso abbreviata attraverso l’inquietante acronimo UGA ed evoluzione normativa delle menzioni geografiche aggiuntive da tempo utilizzate all’interno delle DOCG Barolo e Barbaresco) è un termine di carattere puramente territoriale, che – de facto – identifica una zona maggiormente ristretta all’interno del territorio di una determinata denominazione, il concetto di CRU delinea un significato completamente differente, legato ad un’impostazione gerarchica e piramidale della qualità del prodotto finale e quindi del suo prestigio e rango.

Luogo in cui i due concetti si fondono a meraviglia, quasi a diventare un’unica entità è – evidentemente – la Cote d’Or, in cui la connotazione geografica è fornita attraverso i vari climats/lieux-dits siti all’interno dei differenti comuni o a cavallo di due o più di questi, mentre la piramide qualitativa è determinata dal rango che gli stessi posseggono, sia esso Village, Premier Cru o Grand Cru.

Venendo ai fatti di casa nostra, da tempo immemore si sollecita il ricorso ad una sorta di nuova classificazione del vino italiano, se non generale almeno relativa ai territori ed alle denominazioni più importanti, e la cosa non può che essere vista benevolmente, ma per evitare di fare il classico (oltre che solito) buco nell’acqua, ritengo occorra un fondamentale lavoro a monte, oltre che un salto culturale da parte di tutti gli attori della nostra filiera, produttori in testa.

Infatti, prima di lanciarsi in voli pindarici riguardo classificazioni e gerarchie, sarebbe di importanza capitale mettere in piedi un meticoloso – e soprattutto autorevole – lavoro di individuazione delle diverse sottozone componenti i territori oggetto dell’analisi e dei loro profili geologici, punto di partenza nel percorso di individuazione dei vari climats (quindi delle unità geografiche) che le compongono e dunque per la definizione della piramide della qualità.

Attività che come già accennato è stata fatta quasi esclusivamente per le due più importanti e blasonate DOCG piemontesi (grazie all’impulso dell’enorme opera portata avanti negli anni da Alessandro Masnaghetti), mentre – al di là di estemporanee, improvvisate ed autoassegnate referenze – nei fatti non esiste altrove.

Inoltre, una classificazione piramidale ha significato – o per meglio dire è possibile – solo in questi contesti in cui i differenti terroir esprimano nel vino caratteri differenti e soprattutto riconoscibili.

Penso alle Langhe, a Montalcino, all’Etna ed all’areale del Taurasi, ma anche ad alcuni climat del Chianti Classico o dell’Alto Adige, meno a territori in cui – al di là del valore assoluto dei vini che possono scaturirne, il risultato è per la stragrande maggioranza influenzato dalle abilità tecniche (eccelse o meno) dei differenti produttori.

Aree in cui i vini siano naturale espressione della terra, figli della vigna anziché della cantina, ed in cui le conoscenze e le capacità dei vigneron finiscano per essere una sorta di attività di complemento volta a far esprimere nel bicchiere il 100% del potenziale che ciascun terroir possiede, potenziale – quello sì differente – alla base della successiva scala gerarchica e del concetto di Cru.

Ma al di là di questo, anche gli attori di questo film, siano essi le istituzioni, i consorzi e gli stessi produttori, debbono giocare un ruolo di importanza capitale in questo ipotetico cambiamento.

E devono farlo perché nel paese dei mille campanili, nel paese in cui ognuno, per cercare il suo “posto al Sole”, finisce per oscurare il panorama di tutti compreso il proprio, è veramente necessario un cambio di mentalità, che porti al riconoscimento dei propri limiti e dei meriti altrui.

Una sorta rivoluzione culturale del vino italia, in cui si lavori tutti insieme per dare identità al territorio, per far emergere le differenze ed aiutare il consumatore a comprendere cosa beve e scegliere quello che realmente preferisce anziché cercare ogni sotterfugio possibile per confonderlo, se non proprio per fregarlo.

Da noi, e parlo per esperienza diretta, ancora esistono produttori che anziché raccontare se stessi finiscono per parlare del vicino di vigna che ce l’ha fatta, accusandolo di chissà quali nefandezze semplicemente per sentirsi meno peggio di quello che realmente sono, mentre in Francia, seppur non abbia tanti esempi reali da portare, sono certo che un qualsiasi vigneron di una qualsivoglia appellation sarebbe il primo a pontificare ed a tessere le lodi del vicino “importante”, ma non solo per educazione e deferenza, ma anche e soprattutto per interesse.

Perché sa benissimo che il successo di chi vive nello stesso suo territorio, se non addirittura di un produttore con vigneti a poche centinaia di metri dai propri, di riflesso porterà vantaggi anche a lui, accendendo i riflettori su tutta la denominazione e permettendogli – con molta probabilità – di vendere i propri vini ad un prezzo maggiore di quello che avrebbe strappato in caso contrario.

Sembra banale, lo so, ma nel paese in cui il merito è utopia, in cui si cambia nome ai partiti senza cambiare i politici e le loro mentalità, in cui la competenza ed il successo generano biasimo ed invidia anziché ammirazione e senso di emulazione, in cui anziché discutere di qualità ed aderenza varietale si discetta di protocolli (spesso) senza alcun fondamento scientifico, in cui si spacciano i difetti per difesa della tradizione, ogni cosa è possibile.

Anche di cambiare tutto, finendo per mettere in campo una “rivoluzione” fatta di infinite menzioni geografica e di classificazioni gerarchiche in cui il vertice della piramide risulti ben più intasato della stessa base, senza cambiare nulla.

Commenti

  1. Concordo con il tuo punto di vista. Spero che nei prossimi anni cambi davvero qualcosa nella giusta direzione

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